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Delibera condominiale può vietare l’apertura di varchi nel muro comune?

Cassazione civile , sez. II, sentenza 04.12.2013 n° 27233  

 

La vicenda da cui trae origine la pronuncia annotata riguarda un condominio che aveva assunto a maggioranza una deliberazione avente ad oggetto il generale divieto di aprire varchi nel muro comune posto a delimitazione di una corte comune, così impedendo di ottenere un passaggio sulla pubblica via.

Uno dei condomini dissenzienti aveva impugnato la predetta deliberazione, deducendo l'illegittimità di essa per contrasto con l'art. 1102 c.c., il quale prevede che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”. In sostanza, secondo la tesi del condomino, l'assemblea non potrebbe vietare indiscriminatamente di aprire varchi sul muro comune in quanto una tale facoltà deve essere riconosciuta a ciascun proprietario, salvi soltanto i limiti di cui all'art. 1102 richiamato: ossia che ciò non costituisca pregiudizio alla possibilità degli altri condomini di godere del bene comune.

Oltre a ciò veniva altresì contestato che nella medesima deliberazione assembleare la ripartizione dei costi sostenuti per acquisire alcune consulenze fosse stata ripartita “per teste” anziché in ragione del valore della partecipazione di ciascuno alla comunione.

Il giudice di primo grado, così come il giudice di secondo grado, avevano accolta la domanda così proposta.

A seguito di ricorso per cassazione l'esito del giudizio è stato però parzialmente ribaltato.

La Corte, infatti, ha ritenuto che il giudice di appello abbia errato nel ritenere che la fattispecie fosse disciplinata dalla previsione dell'art. 1102 c.c., e non già a quella dell'art. 1120 c.c.

Disposizione, quest'ultima, che al primo comma così prevede: “I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni”.

In altri termini, la Corte ha individuato l'errore di diritto commesso dal giudice d'appello nella circostanza che esso ha ritenuto di applicare le conseguenze logico-giuridiche derivanti dall'applicazione dell'art. 1102, anziché applicare l'art. 1120 c.c. Invece, proprio tale ultima disposizione consente all'assemblea di introdurre innovazioni nell'uso della cosa comune, innovazione che può consistere anche nell'apposizione di un divieto generalizzato di poter aprire nuovi accessi sul muro comune.

Infatti, ricorda la Corte che le deliberazioni assembleari condominiali, o lo stesso regolamento condominiale, possono limitare l'uso delle parti comuni, mentre l'art. 1102 c.c., svolge una funzione sussidiaria, essendo applicabile soltanto se non sia intervenuta una differente regolamentazione in sede condominiale.

E, conseguentemente a ciò, per pacifica giurisprudenza viene affermato che “l'art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne lo stesso uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, ragion per cui i suoi limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale o dalle apposite delibere assembleari adottate con i "quorum" prescritti dalla legge.”.

Semmai, vi è da considerare che tale libertà di autoregolamentazione dei condomini non risulta assoluta. Deve infatti ritenersi che il limite della legittima autodisciplina assunta dai condomini sia rappresentato dalla previsione del divieto sostanziale di utilizzazione generalizzata delle parti comuni.

La Corte ha però ritenuto che, nel caso di specie, vietandosi soltanto un uso specifico del bene comune, la stessa deliberazione deve ritenersi legittima.

L'altro profilo di censura mossa verso la delibera assembleare è stato, invece, confermato nel giudizio di cassazione.

La Corte ha infatti ritenuto, conformemente alle decisioni dei giudici di merito, che la ripartizione delle spese condominiali debba sempre e necessariamente effettuarsi secondo il criterio del valore della partecipazione alla condominiale, e l'unica eccezione consentita a tale principio è l'assunzione di una decisione in senso contrario presa all'unanimità da parte di tutti i condomini. E' stato infatti affermato nella pronuncia in esame che “in mancanza di diversa convenzione adottata all'unanimità, espressione dell'autonomia contrattuale, la ripartizione delle spese condominiali generali deve necessariamente avvenire secondo i criteri di proporzionalità, fissati nell'art. 1123, comma primo, c.c., e, pertanto, non è consentito all'assemblea condominiale, deliberando a maggioranza, di ripartire con criterio "capitario" le spese necessarie per la prestazione di servizi nell'interesse comune.

 

FONTE: Riccardo Bianchini - Altalex 19 dicembre 2013